lunedì 12 novembre 2007

Quel gioco impazzito che si doveva fermare...

Facile dirlo adesso, a notte calata, con le immagini da guerriglia urbana che feriscono gli occhi. Ma qualcuno del calcio aveva provato a dirlo prima. Qualche giocatore, qualche allenatore, di quelli che non si fanno scudo della frase di rito "sono cose che nulla hanno a che vedere con il calcio". Ma è per il calcio che un giovane è salito su un'auto ieri mattina presto, a Roma. Per andare a Milano a vedere la Lazio. Non è morto per il calcio. Il poliziotto che ha sparato non sapeva nemmeno che ci fossero dei tifosi nell'auto. Ma una parte del calcio è scesa lo stesso sul sentiero di guerra per questo morto, i suoi colori del cuore non contavano, da morto apparteneva a tutti: ultrà dell'Atalanta, del Taranto, dell'Inter, della Roma. E prima ancora che le partite iniziassero, altri uomini di sport si erano dati da fare perché tutte fossero rinviate, non solo Inter-Lazio. Ha prevalso la ragion di Stato. Irragionevole....facile dirlo adesso, ma bisogna. Uno striscione a Parma "La morte è uguale per tutti" era la più pacata risposta di una tribù in lutto che ha pensato questo: per un poliziotto ucciso da un tifoso si ferma il campionato, quando succede il contrario bastano il lutto al braccio dei giocatori e 10 minuti di ritardo. Inutile far notare che le circostanze delle due morti erano molto diverse, che lungo l'autostrada un poliziotto aveva commesso un enorme, tragico errore. A tenere sotto controllo la situazione non ha giovato una ricostruzione dei fatti, da parte del questore di Arezzo, che non stava assolutamente in piedi, in una conferenza-stampa che era un monologo in quanto ai giornalisti non era consentito di fare domande.
Altre volte le decisioni dell'Osservatorio mi avevano trovato d'accordo. Ma stavolta no, proprio la conoscenza della mentalità dell'ultrà italiano doveva consigliare un atteggiamento diverso. Perché il dramma è di ieri, ma lo scontro frontale è vecchio e l'ultimo giro di vite, dopo l'assassinio dell'ispettore Raciti, lo ha inasprito. Da nessuna parte, in Europa, c'è una presenza così massiccia di forze dell'ordine intorno al calcio, e da nessuna parte il calcio è così esposto ai lutti, ai morti, ai feriti, alle devastazioni. È su questa lacerante contraddizione che bisognerebbe lavorare, perché la violenza, da qualunque parte arrivi, c'è sempre. Sembrava calata, stando alle statistiche, ma era solo accantonata, aspettava di riprendersi le prime pagine esattamente come gli ultrà aspettavano un'occasione per ricompattarsi, tutti uniti contro gli sbirri e i pennivendoli (giornalisti, fotografi, cineoperatori, quanti ne hanno menati ieri?). Tra le tante immagini sui vari canali, una m'è rimasta più impressa. Un tifoso dell'Inter dei tanti davanti alla sede Rai, in corso Sempione, che grida a un poliziotto impassibile dietro lo scudo: "Ma che uomo sei, che spari in testa a un ragazzo?". E m'è venuta in mente la storia del lupo e dell'agnello, dell'acqua del ruscello sporcata da chi stava a valle, e della frase del lupo: se non sei stato tu è stato tuo fratello, o tuo padre, o qualcuno dei tuoi. Uno si prende le colpe di tutti, se non c'è educazione emotiva, sia egli poliziotto, romeno, giornalista, zingaro o ultrà. E si continua a respirare quest'aria brutta, da giustizia sommaria, da spedizione punitiva, da assalto alle caserme, da irruzione al Coni, da auto in fiamme, da sassi in mano. Se esiste (ed esiste) un'emergenza calcio, è strettamente collegata a un'emergenza Italia che non è piacevole evocare né ammettere. Un Paese in cui sembra quasi impossibile fare distinzioni elementari, in cui (stando al tifo violento) ci si è cullati col modello inglese, ma senza leggi adeguate, in cui per anni il delinquente che tifa e il tifoso che delinque sono stati incoraggiati a prosperare, e comunque sarà chiaro che la sola repressione non può dare buoni frutti. Non si doveva giocare, e la riprova viene dai fatti di Roma, i peggiori. Cosa sarebbe successo, di più, se si fosse giocato? Gli ultrà sarebbero riusciti a pareggiare in giornata la contabilità dei morti? I dementi slogan come "10 , 100, 1.000 Raciti" si stanno moltiplicando, sui siti del tifo. E larga parte di questo tifo è ideologicamente schierato e politicamente manovrabile. Non mi sembra di raccontare una novità, lo sappiamo tutti. Se un poliziotto spara in aria e uccide un essere umano che non vola, significa che ha sparato più in basso. Si sa chi è. Ci penserà la giustizia. Per Raciti, non si sa chi è stato e comincio a credere che non si saprà mai. La realtà è che due famiglie hanno da piangere un morto che non doveva morire così. Ed è quella più dolorosa. L'altra realtà è quella di un paese che non riesce a risolvere il problema della violenza nel tifo, una violenza che può rivolgersi contro la polizia, o i tifosi dell'altra squadra, o i calciatori dell'altra squadra, o le cose. Penso alla vetrata infrangibile (ma infranta) della curva dell'Atalanta, alle decine di auto bruciate. Penso che la reazione alla morte del tifoso laziale ha avuto intensità diverse nella stessa città, Bergamo. Gli ultrà non volevano che si giocasse, tutto il resto dello stadio sì. I primi si sentivano parenti del morto, quasi fratelli, tutto il resto dello stadio era formato da conoscenti, magari in pena, ma non tanto da rinunciare allo spettacolo della partita. I primi erano attori (talmente attori da determinare la sospensione, come a Taranto), gli altri spettatori. I calciatori in campo avevano l'aria di non sapere di preciso cosa fare. È durata sette minuti la partita di Bergamo, e da oggi si cercherà una data per recuperare questa gara, quella di San Siro e quella di Roma. Ho usato il termine giocatori per abitudine, ma ormai è difficile capire a che gioco stiamo giocando, sempre che gioco sia.

Nessun commento: